Dovendo ridurre all’osso il concetto, potremmo dire che l’obiettivo di una buona campagna Pay-per-clic sia quello di intercettare traffico di qualità in un volume sufficiente, portando un utente su una pagina di destinazione in cui possa comprendere un’offerta e lasciarsi convincere da essa. Nel caso più semplice, magari compilare un modulo, nel caso più complesso (e remunerativo) effettuare un acquisto.
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ToggleDetta così, sembra facile.
Eppure.
Il fatto è che – vuoi perché appare più semplice, vuoi perché non si ha modo di intervenire così spesso sul sito di destinazione – per aumentare le conversioni molti si concentrano prima di tutto e (solo?) sul CTR.
È una domanda – “Come alzo il CTR delle campagne?” – che spunta fuori a intervalli regolari e di per sé non è sbagliata, quanto piuttosto incompleta. Una sua versione migliore suonerebbe come: “Sono certo dell’efficacia dell’intero funnel in cui le mie campagne PPC immettono traffico. Come aumento, ORA, il CTR?”
Perché il punto è un po’ questo.
Così come la correlazione tra due fattori non implica necessariamente un rapporto di causa/effetto, così un maggiore CTR non implica sempre un maggior numero di conversioni.
Il CTR è un fattore importante per quanto concerne il lato della piattaforma pubblicitaria. Ci permette di stabilire se e come la nostra proposta stia venendo in qualche modo “confermata” da un potenziale cliente che la riceve sotto forma di annuncio durante una ricerca, per esempio sulla SERP di Google o navigando il news feed di Facebook.
Indica, insomma, se l’annuncio piace.
In questi termini il CTR è un fattore fondamentale; ci permette di regolare diversi altri parametri legati ancora espressamente all’architettura delle campagne. Tuttavia, se cerchiamo di rapportare il CTR al numero di conversioni, ciò che otteniamo è poco più di una vanity metric.
Quindi, dov’è che più spesso si interrompe la magia?
Volendo riassumere in tre termini le cause che più spesso vanificano l’anche ottimo lavoro di un advertiser avremmo:
- Credibilità
- Coesione
- Chiarezza
1. Credibilità (mancante) sulla landing
Chiedi a un qualunque imprenditore se si ritenga credibile e difficilmente otterrai risposta negativa (e vorrei anche vedere). Ma questo non ha nulla a che vedere con la credibilità percepita. Insomma, in teoria ciò che hai predisposto lato ADV potrebbe pure funzionare, ma la magia crolla quando le persone atterrano sul tuo sito.
Non importa ciò che vendi. Se orologi di lusso da diverse centinaia di euro o biglietti per spettacoli teatrali. Se servizi di assistenza tecnica o pacchetti vacanze last-minute. Per lavorare efficacemente in campo adv devi aver messo in piedi un contesto (perlomeno potenzialmente) credibile sul tuo sito. Il risultato altrimenti sarà quello di scaricare sulla porta utenti (leggi: traffico pagato, spesso salato) che non faranno altro che fuggire a gambe levate.
Quindi, ecco il primo motivo per cui le tue campagne non convertono. Il problema non sono le campagne, quanto tutto ciò che arriva in seguito al clic su una qualunque di esse.
2. Coesione (scarsa) tra annuncio e termine di ricerca
Nota bene, “termine di ricerca”. Non “keyword acquistata”. La differenza è sostanziale. Soprattutto per chi ha iniziato a lavorare in Google Ads da poco è tipico trovarsi a generare un anche buon volume di traffico sulla base di keyword acquistate (è persino improprio parlare di “acquistare” una keyword in Google Ads) attraverso corrispondenze troppo aperte.
Anche semplicemente non aver avuto l’accortezza di controllare attentamente il set di termini esclusi (detti anche corrispondenze negate) dalle campagne abbassa la coerenza tra ciò che l’utente ha davvero cercato e l’annuncio che gli è stato mostrato.
Il rischio in questo secondo caso è quello di generare un clic sui nostri annunci da parte di un utente che voleva quasi-ma-non-del-tutto ciò che avevamo da offrirgli. Con l’amara verità dietro l’angolo: una volta realizzato di essere arrivato nel posto sbagliato, l’utente alzerà le tende senza troppi complimenti.
1. Chiarezza (poca) dell’annuncio
Ultimo, ma per nulla banale. Quante volte hai incrociato un annuncio il cui testo ti sembrava semplicemente… fuori posto? Non intendo errato, quanto apparentemente costruito con poca attenzione.
Annunci che ripetono “spedizione gratuita” nei due titoli, nelle descrizioni e nelle estensioni di callout sottostanti. Sitelink che sembrano portare poco o scarso contributo all’annuncio, proponendo link che non completano la proposta dell’annuncio in sé. Numeri di telefono proposti come estensione di chiamata a cui non risponde nessuno.
Una delle difficoltà più grandi quando si lavora con Google Ads è proiettare la forma finale dell’annuncio al netto di tutte le estensioni disponibili, su tutti gli annunci presenti, mossi da tutti i termini di ricerca impiegati e relativamente alle logiche di dayparting presenti.
Detta più semplice: più aumenti la complessità aggiungendo annunci, estensioni di callout (brevi testi a supporto dell’annuncio), estensioni di sitelink (link aggiuntivi verso altre sezioni del sito), estensioni di chiamata (numeri di telefono) e programmi la loro rotazione magari in alcuni giorni e ore del giorno, più diventa difficile rendersi conto dal lato dell’interfaccia della piattaforma pubblicitaria ciò che invece sperimenterà l’utente.
Perché l’utente vede una sola iterazione di tutti gli elementi del nostro annuncio per volta. Si può capire quanto può essere semplice farsi sfuggire un callout che ripete il testo del titolo di un annuncio, per esempio. O situazioni più paradossali dove lo stesso annuncio sembra un disco inceppato che rimarca sempre le stesse due o tre call-to-action.
Filo conduttore
Sviluppare una buona architettura adv è, beh se non arte, artigianato. Le meccaniche le si imparano in un giorno ma le si perfeziona negli anni. Spesso, basta molto poco per rompere la magia, confondendo l’utente o annoiandolo a morte su una landing poco efficace. La fortuna? Si può procedere un passo alla volta, riportando sui binari il dialogo con i nostri futuri clienti.