È tutta una questione di brand.
“Si, perché anche in un progetto di Inbound Marketing con obiettivo di acquisizione non è possibile prescindere dal Brand. Il marchio e la sua promessa.
Smontiamo subito un’altra fallacia: se non esisto sul web, in una fase iniziale, mi basta tirare fuori un discreto budget in Google Adwords e subito inizio a vendere/ad acquisire contatti.
Questa frase circola come un mantra negli ambienti del digital marketing ed è ormai lo spauracchio delle agenzie e dei professionisti che lavorano con professionalità.
La possibilità che il clic su un annuncio o su un risultato di ricerca o su un ADS di Facebook sia efficace è direttamente proporzionale allo stato di salute e presenza del brand che stiamo promuovendo.
Perché parliamo di clic efficaci? Perché il percorso dell’utente è diventato estremamente lungo, complesso e articolato in più fasi e se lavoriamo in un’ottica di Inbound Marketing e ci approcciamo al primo step del nostro funnel, una miriade di clic iniziali saranno di mera conoscenza, in molti casi estremamente superficiale, del prodotto/servizio che stiamo proponendo.”
Nel mio libro Manuale di Inbound Marketing scrivo esattamente queste parole e nonostante mi sembrano banali, mi rendo conto di quanto ci sia bisogno di parlare di brand, di marca, di marchio, di qualcosa che per sopravvivere dev’essere destinato a imprimersi, a lavorare sulla memoria.
Tra l’altro queste riflessioni diventano più pressanti proprio in questi giorni in cui è tutto un trambusto intorno alla rivoluzione (prevedo che la sua durata sarà, come succede ogni volta nella nostra repubblica delle banane, irrisoria) annunciata dalla normativa sul GDPR.
Si, esatto, avete letto bene… io parlo di brand in concomitanza della normativa sulla protezione dei dati e lo faccio perché, al solito, stiamo sollevando un polverone in cui abbiamo deciso di inserirci dentro di tutto.
In questo classico caso all’italiana mi sembra di scorgere la ricetta della panzanella toscana: un mix di avanzi dal sapore prorompente in quanto a mescolare tanti sapori qualcosa di buono deve venire fuori per forza, solo che si fa fatica a distinguere gli elementi al suo interno e il valore di ciascuno di questi.
E così in questo trambusto sul GDPR mi è capitato di assistere a dibattiti sulla fine del web marketing, sulla fine dell’advertising, sulla fine del Retargeting, ecc., ecc. e ho avuto la stessa impressione di quando si annunciava (e lo si fa ancora) la fine della SEO.
Per anni si è parlato della fine della SEO in concomitanza della fine di un certo modo (becero) di raccattare traffico organico, ossia tramite keyword stuffing, metadati a iosa, link building di scarsa qualità e per molti questa evoluzione significava, appunto, la fine di uno degli strumenti più importanti del web marketing.
Improvvisamente diventava necessario tornare sui contenuti di qualità, sull’esperienza utente, sull’intenzione di ricerca, sul marketing e questo aveva generato caos (lo genera tutt’ora) perché in questo settore, dalla barriera d’entrata nulla, gli improvvisati sono innumerevoli ed è preferibile pensare che qualcosa sia morto piuttosto che accettarne le inevitabili evoluzioni e cominciare a studiare.
I sistemi che non sono capaci di rendersi fluidi per accettare il cambiamento sono destinati a morire e tutto ciò che a che a fare con la comunicazione deve, di per sé, essere assolutamente fluido e soggetto al mutamento continuo. Il resto è fuffa, aria fritta.
E sul GDPR stiamo assistendo alla ripetizione dello stesso scenario. Ci dimentichiamo che per comprendere una norma è necessario affidarsi alle persone competenti (spoiler: esistono gli avvocati), ci dimentichiamo che si, probabilmente i segmenti di pubblico minuziosamente costruiti su un consenso poco informato saranno destinati a ridursi e a essere meno performanti ma, ed è qui che entra in gioco il brand, viceversa sarà possibile lavorare con segmenti altamente più efficaci in quanto l’utente sceglierà di accettare la pubblicità e questo ridurrà gran parte del rumore (e dello spreco di budget di advertising) delle nostre campagne.
Certo è che se abbiamo basato un’intera strategia sul bombing non profilato delle nostre campagne di Retargeting saremo costretti a dover rivedere tutta la nostra pianificazione e, come è successo per la SEO, saremo costretti a evolvere, a tornare al marketing, a costruire un percorso basato sulla possibilità che un brand diventi unico e memorabile (per citare il maestro Iabichino).
L’Inbound non funziona se non partiamo dal brand, la SEO non funziona se non lavoriamo di qualità, il GDRP ci affosserà se abbiamo costruito strutture di advertising decisamente deboli e grazie al cielo che è così.
Prendiamo la palla al balzo e approfittiamo di questa novità per rimboccarci le maniche e tornare alla qualità, interrompendo l’idea malsana che il marketing sul web viva di mezzucci e di sotterfugi per gabbare l’utente.
No, l’utente non è l’utonto di cui parlano tutti, l’utente è colui che con la mano sulla carta di credito ci consente di proseguire con la nostra impresa commerciale ed è lo stesso che, affascinato dagli spot in tv (la tv ha ancora una forza strepitosa) si orienta nelle scelte quotidiane.
Non dimentichiamolo mai, i web marketer sono pubblicitari e in quanto tali devono saper interpretare i segni del tempo, maneggiare la comunicazione e adeguarsi a tutte le sue evoluzioni.
Niente di più, niente di meno. Nel mio libro parlo anche di questo, facendo una panoramica generale di cosa vuol dire oggi fare web marketing e ne ho parlato a Serious Monkey, il 22 maggio a Milano, evento formativo organizzato da Enrico Altavilla.
Riconosco la portata polemica di questo post e sono assolutamente disposta al confronto 🙂